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BARI – Compagnia TEATRO DELLE BAMBOLE – Sabato 1 e domenica 2 novembre, il debutto nazionale de “L’ora del meriggio”, atto performativo dedicato a Pasolini

Un atto di poesia, di corpo e di coscienza. A cinquant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, il Teatro delle Bambole dedica al poeta e regista friulano «L’Ora del Meriggio», un nuovo lavoro scritto e diretto da Andrea Cramarossa, che sarà presentato in debutto nazionale sabato 1 novembre alle 21, e domenica 2 novembre alle 19, in Spazio13 a Bari (via de Cristoforis 8, info 347.300.33.59, ingresso a pagamento). Sul palco Ambra Amoruso, Federico Gobbi, Fabio Guaricci e Michele Lamberti, con Rossella Giugliano performer in video. Disegno luci di Roberto De Bellis, Montaggio video di Vincenzo Ardito, costumi di Elob Mabby Colucci, organizzazione a cura di Maria Panza. Con il sostegno di Fondazione Pasquale Battista, Spazio13 e OTSE – Officine Theatrikés Salento Ellàda.

Lo spettacolo rientra nel progetto di ricerca teatrale “Nella terra di mezzo – Le parole di Pasolini”, articolato in più tappe (che hanno già dato vita al recital poetico “Canto Popolare” e alla tragedia “Bestia da Stile”) che verrà presentato mercoledì 29 ottobre alle 18.30 alla Casa delle Culture di Bari (via Barisano da Trani 15, info 347.300.33.59, ingresso libero) e che si concluderà nel 2026 con “Orgia”. È un percorso che attraversa le parole e i drammi pasoliniani per restituirli, oggi, alla loro potenza originaria: quella di una poesia incarnata, di un teatro che interroga la vita. «Poco da dire, dunque, sulla presa in custodia delle parole di Pasolini, del suo teatro, delle sue visioni, delle sue contraddizioni. Poco da dire ma molto da rappresentare – spiega Cramarossa -, come angeli scriviamo parole a noi nuove, per riportarle al centro dei discorsi e delle vite, per ridare al teatro quella presenza che ri-chiede dalle profonde antichità».
L’intento è quello di rimettere in circolo l’urgenza pasoliniana: la sua ribellione all’omologazione, il suo sguardo lucido e disperato sul consumismo, il suo canto ferito per un’umanità che ha smarrito la sacralità del vivere. L’allestimento, essenziale e rituale, richiama il teatro come “luogo sacro” in cui il corpo si fa linguaggio. Seguendo il ”Manifesto per un nuovo teatro” di Pasolini, Cramarossa sceglie di non raccontare storie ma di generare presenze: «Non esiste una trama precisa – afferma – perché non vogliamo dare occasioni allo spettatore di distrarsi con storie, fatti o antefatti, ma al contrario invitarlo a restare concentrato sulla parola detta, per poterne fare immaginazione e corpo vivente del sé».
Gli oggetti e gli elementi scenografici evocano un mondo perduto: il mondo agricolo e popolare che Pasolini cantò come ultimo spazio di innocenza. Tra le rovine del progresso, emergono processioni di teste di santi, Madonne, televisori spenti che cercano di parlare. «Un dio impietoso che si nutre di sé stesso – prosegue il regista – nella monoteista visione del progresso. Gli altri dei, scomparsi, cercano una via per mostrarsi, per dirsi, ma invano: da un televisore, l’oracolo, cerca di parlare e di scongiurare la catastrofe, ma le sue parole non avranno suono». La scena si trasforma così in un rito di ascolto e di resistenza, dove il teatro diventa il luogo della metamorfosi, l’atto che si oppone alla passività e all’omertà. «Relazionarsi con la propria coscienza, fare del silenzio un alleato e non quella deforme paranoia che è l’omertà: è questa l’incomprensibile richiesta che il teatro di Pasolini impone».
In “L’Ora del Meriggio” il corpo diventa il grido stesso. Il gesto performativo, nella scia del “Secondo Manifesto della Crudeltà” di Antonin Artaud, diventa atto di disobbedienza alla genealogia del sistema capitalistico, per rivendicare il diritto all’incomprensione e alla diversità. «Noi non possiamo esimerci dal gridare tutto il nostro corpo quale fenomeno della crudeltà emersa dal ripetersi delle cose che accadono – aggiunge Cramarossa -, la nostra diversità è il nostro senso di colpa, se l’immagine che dobbiamo mantenere di noi stessi deve essere sempre la stessa. Ma la diversità è cosa seria: è la nostra possibilità di salvezza».
Pasolini, che nel suo “Manifesto per un nuovo teatro” chiedeva un’arte capace di risvegliare la coscienza e di rompere la gabbia del linguaggio borghese, trova qui un interlocutore diretto. In “L’Ora del Meriggio”, il teatro diventa uno spazio politico e poetico insieme: una celebrazione della parola come esperienza, un atto di resistenza e contemplazione. «Dare spazio all’Ora del Meriggio – conclude il regista – significa anche acquisire l’intuizione di un pensiero che vuole rivoltare, rinnovare, agire una rivoluzione, per poi darsi all’impetuosa immortalità della parola».

